I personaggi storici

Gli eugubini che fecero grande Gubbio

Ottaviano Nelli

Ottaviano Nelli nacque a Gubbio attorno al 1370: il padre Martino era anche egli pittore, come lo era il nonno del nostro artista, probabilmente quel Mello da Gubbio la cui bottega fu tra le più attive, in città e non solo, attorno alla metà del Trecento. Dai numerosi documenti d’archivio relativi ad Ottaviano, si può facilmente percorrere la sua carriera di uomo pubblico (nel 1400 è console per il quartiere eugubino di Sant’Andrea), e di pittore di successo che, oltre a controllare tutte le maggiori commissioni a Gubbio, risulta impegnato anche in prestigiosi incarichi al di fuori della propria patria. Nelle sue prime opere, il Polittico di Pietralunga (1403; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria) e gli affreschi di Santa Maria della Piaggiola a Fossato di Vico, Ottaviano si rivela ancora legato alla cultura figurativa del tardo Trecento; nelle opere successive, invece, appare aggiornato ai moderni esiti artistici del gotico internazionale, come è evidente nelle Storie della Vergine (1409 ca.; Gubbio, Chiesa di San Francesco) e soprattutto nella Madonna del Belvedere (1408 o 1413; Gubbio, Chiesa di Santa Maria Nuova), affresco considerato il suo massimo capolavoro. Da questo punto, la carriera artistica di Ottaviano decolla: ben inserito nell’ambiente feltresco, negli anni tra il 1417 e il 1430 il nostro pittore lavora tra Urbino, Rimini e Fano, portando a termine lavori importanti; sempre in questi anni, decora la cappella di Palazzo Trinci di Foligno con le Storie della Vergine, che la critica considera uno dei suoi capolavori (1424). Contemporaneamente, però, Ottaviano mantiene vivi i contatti con la propria città natale, dove realizza gli affreschi dell’abside della Chiesa di Sant’Agostino (Storie del santo e Giudizio Finale). Alla fase tarda della sua attività vanno riferiti alcuni lavori a Gubbio, come il ciclo allegorico di Palazzo Beni e le Storie di san Pietro Martire nella Chiesa di San Domenico, realizzate con vasto intervento degli aiuti del maestro.

Oderisi

La fama di Oderisi, miniatore eugubino del XIII secolo, si deve in massima parte ai celebri versi di Dante Alighieri, che nel canto XI del Purgatorio, lo colloca nel girone dei Superbi : «Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,/l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte/ch’alluminar chiamata è in Parisi?». Dal lungo discorso che Dante mette in bocca ad Oderisi, si evince come l’artista eugubino godesse della fama di maggior protagonista della miniatura (alluminar) nel Duecento: paradossalmente, però, non si conserva ad oggi alcuna opera che possa essere ascritta con sicurezza alla mano del nostro artista, sebbene il Vasari, nelle sue celebri Vite (1568), ricordi come opera di Oderisi le decorazioni di alcuni manoscritti nella Biblioteca pontificia, «in gran parte oggi consumati dal tempo», ed attualmente non più reperibili. Le poche notizie certe su di lui ci vengono dagli archivi bolognesi, e sono databili agli anni tra il 1268 e il 1271: magister Odericus quam Guidonis de Gubio risulta impegnato in alcuni lavori a Bologna; se ne deduce che l’attività dell’artista eugubino ruotava con ogni probabilità nell’orbita del fiorente Studium felsineo. Alla luce di questi pochi appigli, ricostruire il percorso artistico di Oderisi risulta una sfida affascinante, quanto improba, che ha coinvolto una fitta schiera di studiosi, sebbene ci si muova, proprio per mancanza di opere certe, su di un terreno estremamente insidioso: tra le ipotesi più suggestive avanzate dalla critica, c’è quella di Roberto Longhi, che in alcuni suoi saggi del 1966 ipotizzò la cultura figurativa di Oderisi come formata dalla fusione tra la tradizione miniatoria umbra, terra d’origine dell’artista, e quella della grande Scuola bolognese, particolarmente attiva ed aperta grazie alla presenza della prestigiosa Universitas; sulla base di questa intuizione, il Longhi propose Oderisi come autore delle bellissime miniature che decorano la Bibbia di Corradino (Baltimora, Walters Art Gallery).

BIBLIOGRAFIA: S. Manacorda, Oderisi da Gubbio, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, vol. VIII, Roma 1997, pp. 790-791.

Gattapone

L’architetto e capomastro Matteo di Giovannello, detto Gattapone, nacque a Gubbio attorno al 1320. La sua attività è legata soprattutto ai prestigiosi lavori eseguiti per il cardinale spagnolo Egidio Albornoz, legato pontificio per l’Italia all’epoca della cattività avignonese dei papi. Per l’Albornoz, Gattapone attese a due principali commissioni: la rocca di Spoleto (dal 1362) e il Collegio di Spagna di Bologna, costruito a partire dal 1364 per volontà testamentaria del cardinale stesso. Altri incarichi cui è legato il nome del Gattapone si trovano in Assisi: si tratta dei lavori di restauro della Cappella di Santa Caterina nella Basilica Inferiore di San Francesco (dal 1367) e della costruzione dell’Infermeria Nuova del Sacro Convento (1337-1377); l’intervento dell’architetto eugubino in quest’ultima opera non è però confermato dalle fonti archivistiche, anche se ipotizzabile per via del fatto che a finanziare tale impresa intervenne il cardinale Albornoz. L’attività di Gattapone è inoltre documentata a Perugia: dal 1372, egli prende infatti parte ai lavori di costruzione della fortezza di Porta Sole, distrutta poi dagli stessi Perugini già nel 1376. Non è invece possibile confermare, per ragioni cronologiche, la tradizione locale eugubina, di matrice ottocentesca, che assegna al Gattapone gli edifici comunali della città, il Palazzo dei Consoli e il Palazzo del Podestà: alla loro costruzione, infatti, si attese a partire dal 1321 (il Gattapone era nato attorno al 1320!), e presumibilmente su progetto dell’architetto Angelo da Orvieto, il cui nome compare sull’iscrizione del portale di Palazzo dei Consoli.

Mastro Giorgio Andreoli

Mastro Giorgio Andreoli nasce fra il 1465 e il 1470 a Intra presso il lago Maggiore, come afferma Giuseppe Mazzatinti, storico eugubino dell’Ottocento. E’ comunque certo che dal 1518 in poi Mastro Giorgio diviene famoso per l’applicazione del lustro metallico sulle maioliche. Da quast’anno infatti Mastro Giorgio contrassegna con un suo monogramma le proprie opere. Nelle sue botteghe vengono riverberati piatti di artisti famosi, quali: Xanto Avelli da Rovigo, Nicola da Urbino detto Pellipario e Baldassarre Manara. Si ha anche notizia di atti stipulati da Mastro Giorgio e i pittori come Giovanni Luca di Casteldurante, Federico da Urbino per la realizzazione, decorazione e lustro di maioliche. La bottega di Mastro Giorgio acquista grande fama proprio per l’applicazione dei lustri in oro e rosso rubino, ottenuti in terza cottura, contemporaneamente, pur richiedendo i due colori temperature diverse. Non si sa con esattezza da chi Mastro Giorgio riprenda tale tecnica: probabilmente a Deruta, forse a Faenza o nella bottega di un ceramista, Giacomo di Paoluccio, che applica il lustro già prima di Mastro Giorgio. Cipriano Piccolpasso, architetto e pittore del Cinquecento, nel II libro “dell’arte del vasaio” descrive l’arte del lustro che dice di aver visto applicare “in casa di un Mastro Cencio in Gubbio”. Dunque Vincenzo, detto Cencio, applica come il padre i riflessi sui piatti. Nel 1536 Mastro Giorgio, e i figli Vincenzo e Ubaldo e gli eredi del fratello Salimbene vogliono dividere i beni comuni, compresa la “gloriosa officina”. Da quell’anno l’arte del Maestro è continuata dai figli, i quali oltre al loro monogramma continuano a mettere nel retro del piatto le lettere M.G. e i soliti fregi di foglie. In ogni modo le maioliche dipinte e lustrate nella loro bottega non hanno più la iridescenza che si ammirano nelle opere di Giorgio che muore nel 1555.

Aldo Ajò

È il maggior ceramista eugubino del Novecento, la cui arte supera i confini locali per raggiungere vertici di livello nazionale. Nato a Gubbio nel 1901, Ajò inizia precocemente a dedicarsi alla ceramica sotto la guida di Ilario Ciaurro (1899-1992), operante presso la Società Vasellari eugubini “Maestro Giorgio” – attiva in città nei primi Anni Venti – e particolarmente interessato alla riscoperta dei lustri di Mastro Giorgio. Ancora giovanissimo, nel 1921 Ajò passa a lavorare a Gualdo Tadino presso la Società Ceramica Umbra dei fratelli Rubboli, dove rimarrà fino al 1927: a quella data, infatti, ritorna a Gubbio dove da’ inizio ad una propria attività, la Bottega d’arte; sebbene la ceramica rimanga il suo campo d’elezione, dove elabora un linguaggio straordinariamente moderno ed originale grazie anche alla sperimentazione tecnica, in questo periodo Ajò si applica, con grande poliedricità, anche ad altri campi artistici, tra cui la pittura, la xilografia e soprattutto il ferro battuto. Dal principio degli Anni Trenta si dedica alla ceramica in maniera pressoché esclusiva, iniziando anche con la produzione dei grandi pannelli ed elaborando un inconfondibile e personalissimo linguaggio figurativo che, pur conducendo all’estrema rarefazione della forma, non sfocerà mai nell’Informale, imperante per la gran parte del XIX secolo: nel repertorio di Ajò compaiono quindi, oltre a soggetti di carattere religioso, scene ispirate alla natura e alla vita bucolica – che diverranno il tratto distintivo della sua arte – per le quali la dolce campagna di Gubbio costituisce un’inesauribile fonte d’ispirazione cui attingere; sotto lo sguardo e le mani dell’artista, questi soggetti subiscono quindi una vera e propria trasfigurazione, grazie alla particolare lavorazione della materia e alla cottura a terzo fuoco, che conferisce alle opere lustri e riverberi metallici.