Nella terza giornata della 67esima Settimana liturgica nazionale a Gubbio, mons. Sorrentino, vescovo di Assisi − Nocera Umbra − Gualdo Tadino, ha presieduto la celebrazione eucaristica nella chiesa di san Francesco. Ecco il testo integrale dell'omelia.

La festa dell’apostolo Bartolomeo ci fa alzare lo sguardo verso la Gerusalemme celeste, la città solida e fulgida, le cui fondamenta portano i nomi dei dodici apostoli.

Una visione di solidità e di splendore che, dopo una notte in cui anche la nostra Umbria ha avvertito scosse di terremoto, ci fa sentire più forte la distanza tra il cielo e la terra. Terremoti fisici e terremoti morali fanno a gara per ricordarci la fatica dell’esistenza. La liturgia si pone nel cuore della nostra fragilità, ma ci apre la prospettiva della misericordia e della speranza.

Il fondamento della nostra speranza è l’incontro con Gesù. Oggi il vangelo ce ne parla attraverso il dialogo di Gesù con Natanaele, che la tradizione identifica con Bartolomeo, l’apostolo di cui facciamo memoria.

Siamo, nella ricostruzione del vangelo di Giovanni, alle prime battute del ministero di Cristo. Dalle rive del Giordano a quelle del mare di Galilea, Gesù comincia a raccogliere i primi discepoli. Un grande dinamismo. Modalità diverse di approccio e di incontro. I primi due si sentono attratti e invitati da lui. Poi si fanno essi stessi missionari. E accade così che a Natanaele la notizia e l’invito siano portati da Filippo.

Il movimento dei primi discepoli si innesta in un quadro di attesa messianica, che Natanele ben interpreta come uomo che conosce la Scrittura, anzi, la approfondisce, come sembra suggerire − secondo un’ipotesi esegetica − il suo porsi a studiarla sotto l’albero di fico: curioso costume allora in voga.

Nella Scrittura egli cerca le tracce di un mistero che si fa strada nella storia. Confronta quello che legge con quello che vede. Inclina a presumere della sua scienza, mentre si mostra poco pronto per le sorprese di Dio. Quando gli viene detto che il Messia è apparso, e viene da Nazaret, ha una reazione di sussiego: da Nazaret può venire qualcosa di buono? Gli fanno velo i pregiudizi paesani, ma anche il fatto che questo centro, divenuto a noi tanto noto e caro, nell’Antico Testamento è praticamente inesistente. Un Messia che viene dall’oscurità gli sembra impossibile. Lui aspetta un Messia glorioso, a partire dall’anagrafe familiare.

Tocca a Filippo riecheggiare per lui la formula di ogni vero inizio cristiano, di ogni autentica evangelizzazione: “Vieni e vedi”. L’invito all’esperienza.
Gesù aveva usato la stessa formula con i primi due che si erano messi sulle sue orme.
L’incontro con Gesù non avviene intorno alle scrivanie, ma nel contesto di un vissuto.
La liturgia è tale se ci offre questo vissuto. “Vieni e vedi”. Si tratta di aprire i nostri occhi e il nostro cuore alla parola proclamata. È Cristo stesso che ci parla. La parola eterna fatta carne, e fatta pane, per essere nostro nutrimento.

Ma per poterla incontrare, bisogna che ci facciamo scandagliare da quello sguardo divino che ci legge dentro; che ci conosce e ci avvolge prima ancora che possiamo averne coscienza.
“Prima che Filippo ti chiamasse ti ho visto quando eri sotto il fico”.
Cristo conosce i limiti e i pregi del nostro cuore. Apprezza la sincerità, anche quando è mal declinata dalla nostra presunzione. Solo nella sincerità si può stabilire un rapporto con Colui che è la verità. La lode che Cristo fa a Natanaele dovrebbe essere l’elogio al quale ognuno di noi aspira: un vero israelita in cui non c’è falsità. Solo un cuore sincero si apre al mistero.

Vale anche per la celebrazione eucaristica. Nulla è magico. Tutto è alleanza: gioco a due, iniziativa divina che non s’impone e bussa alla porta della nostra vita.

Quante eucaristie celebrate, quante comunioni fatte, e la vita non cambia!
Perché? La più raffinata “ars celebrandi” non può sostituire la condizione più profonda del celebrare, che è l’apertura del cuore.

Occorre lasciar cadere le nostre difese. Non a caso ogni celebrazione è introdotta da un atto penitenziale. Ogni celebrazione è misericordia offerta, invocata, sperimentata: “Kyrie eleison”.
Nell’evento celebrativo non è possibile entrare solo provvisti di una buona formazione rituale, per quanto il rito, dignitosamente posto, implichi anche la sobria e bella dignità delle forme.

Ma guai a restare a questo livello. Fra gusti tradizionalisti e gusti rinnovatori ce n’è di tutte le risme per porre gesti che non hanno il sapore della vita. E l’evento non si compie, o meglio, non ci incontra. Si entra e si esce di Chiesa perfettamente identici. Nessuna conversione. Nessuna grazia è passata nei meandri in cui si gioca davvero la partita della nostra esistenza e della nostra salvezza.

Com’è bello, invece, quando le difese cadono. Lo sguardo di Cristo ci convince e ci avvince. La confessione della fede si fa caldo riconoscimento della verità: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele”.

Quella di Natanaele è la professione di fede che, per quanto ancora immatura, ha già incontrato un volto, un Tu, il Tu del Salvatore.

Ma è solo l’inizio del cammino. Il dialogo di Gesù fa presagire i passi di un itinerario di grazia che addita il cielo aperto e la visione di angeli che salgono e scendono sul Figlio dell’uomo. È preannunciato l’evento pasquale, anzi la parusia. È il volto di Dio che risplende sul volto di Cristo, ma illumina anche ciascuno di noi. Quando, nella conclusione del prefazio, ci immergiamo nel “Tre volte santo” della visione di Isaia, e confessiamo la gloria di Dio che pervade i cieli e la terra, dobbiamo credere che quella gloria riposa su Gesù di Nazaret, il tempio di Dio, l’Agnello che toglie i peccati del mondo. Prima di contemplarlo nella Gerusalemme celeste, siamo chiamati ad incontrarlo qui sulla terra, nel mistero.

Il racconto di Natanaele ci può aiutare. Ci offre le coordinate di un incontro vero col Salvatore. Ci inserisce anche in un processo comunitario, che è fatto di ricerca comune e di reciproco annuncio. Implica l’accoglienza della dimensione apostolica della Chiesa, e ci mette così nel flusso salvifico che percorre il tempo e lo spazio, unisce le generazioni e le latitudini, e ci spinge ad essere, a nostra volta, annunciatori credibili, capaci di portare, come Filippo, la notizia che salva, con la capacità di dire “vieni e vedi”. Una fede che si trasmette dunque più col contagio della vita che con la stanca ripetizione di parole pur necessarie. Ma quanto siamo capaci, come Chiesa, di dire convintamente, e senza tema di essere smentiti, “vieni e vedi”?

Domenico Sorrentino, Vescovo di Assisi − Nocera Umbra − Gualdo Tadino