Ieri, nella seconda giornata della 67esima Settimana liturgica nazionale a Gubbio mons. Galantino, segretario generale della CEI, ha presieduto la celebrazione eucaristica nella chiesa di san Pietro. Ecco il testo integrale dell'omelia.
Con voi mi sento destinatario dell’affettuosa e decisa esortazione che Paolo rivolge ai cristiani di Tessalonica. A noi Paolo oggi dice: «Vi prego, fratelli, di non lasciarvi confondere la mente» (2 Ts 2, 1−2). E, alla luce del Vangelo ascoltato, ciò che ci rende confusi − oggi soprattutto − è la tentazione di sostituire con altro, nella nostra vita individuale e di Chiesa, i pilastri della giustizia, della misericordia e della fedeltà. Noi tutti possiamo cadere in confusione − per dirla con Paolo − quando decidiamo noi e non il Signore la misura della misericordia da esercitare, quando pretendiamo di opporre la giustizia alla misericordia e quando ci accontentiamo di una fedeltà a intermittenza.
Questo facevano gli scribi e i farisei. Ma è quello che spesso facciamo anche noi. Agli impegnativi esercizi di misericordia, all’esigente pratica della giustizia e alla fedeltà spesso noi preferiamo altro. Talvolta preferiamo sostituire questi tre impegnativi pilastri del Vangelo con parole ammantate di sacralità e ridondanti di retorica. Talvolta sostituiamo la misericordia, la giustizia e la fedeltà con raccomandazioni politicamente corrette e con cerimonie a vaga trama religiosa.
Su tutto questo si stagliano forti le parole di Gesù: «Guai a voi . . .». Perché Gesù pronunzia queste parole? Cos’è che dà forza alle sue parole? Penso sia soltanto il grande amore che Egli nutre per la gente. É tanto grande il suo amore da non fargli sopportare che il popolo sia schiacciato dal peso delle tradizioni esteriori che scribi e farisei, anche in nome di Mosè, impongono.
È lo stesso Matteo a farci sapere che «…terminati questi discorsi… i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono e tennero consiglio per arrestare con un inganno Gesù e farlo morire» (Mt 26,3s). E sì! Perché tutti invocano o invochiamo riforme e rinnovamento, ma guai a chi queste riforme le fa. A nessuno e in nessun tempo viene perdonato un linguaggio chiaro che metta a nudo ipocrisie, strumentalizzazioni, contraddizioni e mezze misure. Anche fra di noi…
Penso ricordiate tutti le reazioni perbeniste con le quali furono accolte le parole di Benedetto XVI che, in quel Venerdì Santo del 2005, denunziava la presenza di sporcizia nella Chiesa e la necessità di far pulizia. Ricordiamo tutti le reazioni che ci furono. Ma penso conosciate tutti i consigli alla prudenza che vengono costantemente rivolti a papa Francesco perché non denunzi troppo quello che di antievangelico, accanto alle tante e straordinarie bellezze, purtroppo c’è nella nostra Chiesa!
Purtroppo la storia si ripete! «…Terminati questi discorsi… i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo si riunirono e tennero consiglio per arrestare con un inganno Gesù e farlo morire» (Mt 26,3 8).
Quello di Gesù è un estremo tentativo per far capire e per farci capire quanta distanza passi tra Lui e lo spirito farisaico, tra il Vangelo e i piccoli o grandi aggiustamenti che ci vedono protagonisti; Lui «…venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10); Lui che parla «…affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia completa» (Gv 15, 11) e le tante parole che tentano di riempire il vuoto.
A Gesù che vuole persone piene di vita e di gioia, compatibilmente con la loro storia si oppone il modo di fare di scribi e farisei che sbarrano le porte alla felicità e opprimono la vita della gente. Le sette “maledizioni/guai” che si susseguono con un ritmo incalzante, nel capitolo 23 di Matteo, sono tese a smascherare la falsità di quanti pretendono di essere pastori avendo altre mire che non siano la vita piena e la gioia delle persone loro affidate, affermando se stessi sugli altri, imponendo pesi insopportabili agli altri con falsi moralismi mentre essi si dispensano volentieri da ogni regola morale, facendosi paladini di norme e pratiche esteriori che non nascono da un cuore misericordioso e buono come è quello del Signore e che nulla hanno a che fare con la “tradizione” nella quale Paolo ci invita a rimanere saldi.
La pagina del Vangelo di oggi è un modo chiaro, da parte di Gesù, per riportarci all’essenziale della nostra vita e del nostro ministero, costituito dai tre fondamentali tratti del vivere religioso: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Matteo qui si muove sulla linea della tradizione profetica, la quale, a fronte di un culto esteriore, fatto di sacrifici e di offerte, indica quello più autentico e più impegnativo, quello del cuore. Sappiamo che nella Scrittura il cuore non è soltanto la sede degli affetti, è la sede delle decisioni, degli impegni concreti, è dove ciascuno decide di scommettere se stesso sulle parole che dice, sia quelle rivolte al Signore, sia quelle rivolte agli altri.
Esiste una priorità di verità nella nostra fede, come ci ha ben ricordato il Concilio, e dobbiamo renderla evidente in ogni momento! Non tutto è uguale allo stesso modo e molte verità sono consequenziali ad altre. Capisco la proposta cristiana sulla sessualità solo dopo avere scoperto la bellezza del modo nuovo di vedere l’umanità proposto da Cristo. Capisco il valore della preghiera solo quando mi aiuta a incontrare il sorriso del Padre! Troppo spesso, nelle nostre comunità, si attribuisce la stessa importanza ai grandi misteri della fede e alle consuetudini del parroco! Diamoci una scossa, ristabiliamo una priorità nelle nostre comunità per essere credibili!
Praticare la giustizia, vivere la misericordia e di misericordia, orientare la propria vita alla fedeltà. Per Israele tutto questo non significava percorrere tre strade tra loro parallele e distinte, bensì sintonizzarsi di fatto con un’unica realtà, quella divina.
È quello che ci viene chiesto sempre, ma soprattutto in questo anno giubilare. Sentirci richiamare all’esercizio della misericordia, in tempi come i nostri attraversati da forti spinte egoistiche e di chiusura, vuol dire sentirsi richiamati alla carità come arte dell’incontro, come arte della relazione, come arte del vivere, ma significa soprattutto sollecitare − da parte di tutti, dentro e fuori la Chiesa − un soprassalto di umanità per non permettere al cinismo, alla barbarie e all’indifferenza di avere la meglio. È questo il contributo che veniamo chiamati a dare.
«Non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale», ci disse papa Francesco il 10 novembre 2015, a Firenze. E continuò: «Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile».
Possiamo corrispondere efficacemente a questo invito facendo nostro lo stile indicato nell’ottavo capitolo dell’Amoris laetitia, facendo cioè lo sforzo di riconoscere, accompagnare e integrare la fragilità che caratterizza la nostra e la vita degli altri.
Sono questi i passi evangelici di misericordia, di giustizia e di fedeltà che fanno di una comunità cristiana una comunità capace di immettere nella storia germi di vita nuova rispetto a quelli di una cultura antiumanistica, cinica, che tante volte quasi gode del male che purtroppo sporca la vita di tanti uomini e di tante donne.
Nunzio Galantino, Segretario generale della CEI e vescovo emerito di Cassano allo Jonio